lunedì 18 luglio 2016

LA TRAGEDIA NAZIONALE. Lo strano rapporto tra gli italiani e l'informazione.


12 luglio 2016, Puglia, tratto Adria -Corato. Incidente ferroviario in cui perdono la vita almeno 23 persone, più di 50 i feriti. Sfido qualsiasi italiano residente in Italia ad ignorare la notizia di questo accadimento. Nessuno che non abbia visto una delle tantissime edizioni speciali dei telegiornali in cui sia stata trasmessa la notizia, o che non l’abbia ascoltata in radio, che non ne sia venuto a conoscenza sentendone parlare il vicino di casa, il fruttivendolo o la parrucchiera, o ancora che non abbia appreso la notizia da internet. Una tragedia, nessuno può negarlo. Hanno perso la vita moltissime persone, tra cui bambini, giovani, adulti, sul web si è parlato persino di un cane, morto dopo aver salvato il suo padrone. Onore a questo cane, che probabilmente non è mai esistito, ma che ha stretto i cuori di moltissimi lettori e frequentatori di social network, dove la notizia è stata divulgata e trattata in ogni sua sfaccettatura. Le vittime erano italiane. Italiani, è questo che è grave. È questo che colpisce. Ora, a tutti gli italiani stretti nel cordoglio per la perdita dei loro 23 connazionali, vorrei chiedere se sono a conoscenza della strage avvenuta solo due settimane prima dell’incidente ferroviario, strage in cui sono morte 36 persone, e che ne ha ferite 147. È avvenuta ad Istanbul, nell’aeroporto di Atatürk, per un attentato di matrice terroristica. È il decimo sanguinoso attentato avvenuto in Turchia quest’anno. È avvenuto a fine giugno. Dieci attentati in soli sei mesi, unicamente nel territorio turco. Passiamo in Iraq, a Baghdad. Nemmeno dieci giorni prima dell’incidente avvenuto in Puglia. Un attentato terroristico di matrice jihadista ha causato la morte di 130 persone, ferendone più di 200. Le vittime erano civili, famiglie, bambini, che passeggiavano per strada. Purtroppo l’elenco delle stragi che avvengono ogni mese è lunghissimo, e a chi ne vuole una prova basta semplicemente navigare su internet. La questione, però, è che queste notizie non vengono divulgate abbastanza dai telegiornali, dalle radio, dai quotidiani. Magari appaiono nei trafiletti in basso, non hanno una reale rilevanza. “I mass media sono pilotati” o “Ci fanno sapere solo quello che vogliono”, questi i maggiori commenti che sento in proposito su tale argomento. Forse questo è vero. Però le notizie ci sono, perché non andarle a cercare? Perché ci si accontenta di quello che ci viene detto dai telegiornali o dalle radio, pur sapendo che omettono molto? Perché di un attentato avvenuto in Iraq, con 130 morti e 200 feriti, si è appena accennato, mentre di un incidente ferroviario con 23 vittime si parla per giorni, settimane, e ne sono intasati tutti i social network?

La goccia che ha fatto traboccare il vaso (dell’indignazione) è stato leggere il post di un famoso youtuber (nonché scrittore ed attore) in cui scrive “Non si può morire così”, riferendosi all’incidente del 12 luglio. Vorrei chiedere a questo ragazzo in che modo reputa che si possa (o debba) morire. Probabilmente la sua intenzione (sua e di migliaia di altre persone che hanno pubblicato commenti simili) era quella di esprimere rammarico nei confronti della tragedia. Si. Ma perché il post è stato scritto in riferimento a questo incidente, e non a tutte le stragi precedenti? Perché in questo caso “non si può morire così”? Perché non scriverlo anche per tutte le vittime dei tantissimi attentati che avvengono ogni mese nel mondo? Il web pullula di persone che commentano la questione della causa dell’incidente ferroviario, se sia un errore umano o meno, affermando che “Non è giusto morire per una disattenzione”.  La domanda che vorrei porre loro è: per cosa è giusto morire? Quale causa di morte può essere socialmente accettata? È giusto morire in un aeroporto, in un mercato o in un ristorante, perché un folle si fa esplodere per il suo credo religioso (e non solo)? È giusto morire in guerra quando si è ancora un bambino e si imbraccia un’arma? È giusto morire in mare su un barcone, o in un container, fuggendo dalla guerra alla ricerca di un luogo sicuro che non verrà mai raggiunto?

Facciamo un salto nel passato, non così remoto. 24 marzo 2015, Francia. Il volo Germanwings 9525 si schianta sulle Alpi Provenzali. Centocinquanta vittime, nessun ferito. I titoli dei quotidiani, così come anche tutti i telegiornali, riportano la notizia così: “Disastro aereo. 150 vittime, di cui 2 italiani”. Qual è la necessità di far sapere che 2 delle 150 vittime fossero italiane? Che differenza fa? E invece la differenza c’è. L’impatto emotivo è maggiore, la notizia acquista più risonanza. Emerge il patriottismo, anzi, risorge. Nella tragedia sono morti 2 italiani, ed è subito lutto nazionale. Degli altri 148 morti poco importa. Improvvisamente l’Italia si unisce, gli italiani tornano a sentirsi parte di una nazione. Gli stessi italiani che fino al giorno prima se ne lamentavano, se ne vergognavano. Italia paese di mafia, di tasse spropositate, di disoccupazione, di corruzione. Si va all'estero per trovare lavoro. Si evade il fisco perché non ci si sente rappresentati dallo Stato e non se ne condivide la politica. Sono però gli stessi italiani che non accettano la morte di 23 connazionali a causa di un incidente ferroviario, ma che digeriscono benissimo la notizia di centinaia di vittime straniere. Anzi, vivono benissimo continuando ad ignorare questo genere di notizie.

Se è successo in Puglia, così vicino, poteva succedere anche a me, poteva esserci mio figlio su quel treno. Viaggio spesso, potevo morire io in quel modo. Sono queste le frasi che più si leggono nei commenti alla notizia; questi i pensieri, i meccanismi che scattano, che fanno arrabbiare, indignare o rammaricare. Gli attentati che avvengono in Turchia non possono colpirmi. Sul barcone di migranti non ci sarà mai mio figlio. Forse. Dunque il cordoglio nazionale è solo una sorta di paura egoistica? No. Le persone si rattristano realmente. Ovviamente, sono morte delle persone. Ma allora perché un bambino che muore su un treno in Puglia rattrista di più di un bimbo che muore dilaniato da una bomba esplosa a Baghdad?

Forse la domanda più giusta da porsi è: perché ascoltiamo queste notizie? Perché ascoltiamo i telegiornali, o leggiamo i quotidiani? Per essere informati su quanto accade nel mondo? Parrebbe questo il motivo più sensato. Ma non è poi tanto plausibile. Basta ascoltare i telegiornali per una settimana (forse anche meno) per rendersene conto. Il divorzio di una soubrette ruba subito la scena alla notizia di un attentato in Iraq, che diviene un misero trafiletto a fondo schermo (o pagina). Solo quello che accade in Europa, o ancor meglio in Italia, pare suscitare un certo interesse, al resto si preferisce il gossip.

Si ascoltano le notizie per essere aggiornati. Ci si illude di esserlo. Ci si indigna per la tragedia di cui ci informano. Si mette a tacere la coscienza scrivendo sui social network frasi come “Je suis Charlie” (anche se non si sa bene nemmeno cosa fosse questo “Charlie”). E si è pronti alla prossima notizia. Tanti si arrabbiano, tanti ne sono sconvolti. Poi la notizia passa in secondo piano, ce ne sono di nuove altrimenti ci si annoia, e non se ne parla più. Ed in men che non si dica pare sia stata eliminata non solo dai quotidiani, ma anche dalla memoria degli individui.

Ma delle notizie in sé ce ne facciamo poco se poi le dimentichiamo presto. Scrivere Je suis Charlie non riporta in vita le vittime dell’attentato. Adottare comportamenti che combattono ideologie religiose violente nemmeno, ma potrebbe però impedire che una strage simile si ripeta. Condividere fiocchi neri su Facebook non farà tornare le vittime dell’incidente ferroviario dalle loro famiglie, ma indagare le cause dell’incidente ed adottare politiche e strategie che possano prevenire altre stragi simili potrebbe essere un modo utile di reagire.

Le notizie e le informazioni sono un’arma potentissima, non dobbiamo dimenticarcene. Chi pensa che i mass media ci mettono a conoscenza solo di determinate informazioni non dovrebbe adattarsi a questo. Bisogna invece che si attivi per cercare lui stesso le informazioni. Cosa, al giorno d’oggi, molto semplice. Basta navigare un po' su internet e si può scoprire tutto quello che accade nel mondo, o quasi.

Quando in televisione si legge velocemente “Morte 130 persone in un attentato, ma fortunatamente nessun italiano è stato coinvolto dall’esplosione”, sarebbe opportuno indagare a fondo la notizia, e reagire. Non ci si può rattristare solo per i 23 connazionali morti nell’incidente del 12 luglio. Della nazione a cui appartengono poco importa. Bisogna tenere sempre presente che oltre che italiani, ed europei, noi siamo in primis parte della specie umana, e purtroppo di umani ne muoiono tantissimi, ogni giorno.


Bianca Rapini

mercoledì 30 marzo 2016

COME TU DORMISSI DOPO IL PRANZO


Lo sguardo di terrore dipinto sul volto di un condannato a morte, che guarda gli ultimi granelli di sabbia in una clessidra, gli ultimi granelli della sua vita che si infilano in quella impietosa fenditura e scivolano inesorabili verso l’oblio, verso la dissoluzione. Tale è la maschera che indossa il giovanissimo Claudio al principio dell’atto terzo in “Measure for Measure”, apice del problem play shakespeariano. Il disonore, il disonore di aver violato l’amata Giulietta prima di convolare con lei a giuste nozze è il motore della serie di rapidi e funesti eventi che getta lo sventurato fra le braccia del boia. Non più di ventiquattro ore lo separano dal capestro, dal corso di una giustizia assoluta che non ammette deroghe. E dunque la rapace stretta della disperazione, che attanaglia ogni muscolo di Claudio, che gli avvelena il cervello e lo getta tra i flutti della speranza e dello sconforto, alla mercé d’un senso di sopravvivenza ottenebrato dall’afflizione. A mitigare parzialmente questo stato di fatale angoscia del giovane giungono le parole di Frà Ludovico, deus ex machina dell’intera vicenda: sotto il saio del frate si nasconde infatti il Duca di Vienna, unica autorità a poter disporre della vita di Claudio, sulla base della rigorosa legge cristiana. Che senso avrebbe vivere una vita che non farebbe altro se non inseguire la morte, passo dopo passo, con ostinazione di segugio? Val la pena vivere una vita mutila d’onore, dilaniata dal peccato, macchiata dalla colpa? Claudio sarebbe condannato a portare quella maschera che orribilmente indossa in carcere anche per le vie del mondo.

 
“… Il tuo riposo

è il sonno; e tu temi la morte, stupida,

che è sonno e niente più. Tu non sei tu,

perché non hai sostanza, sei un insieme

di atomi, sei polvere. Tu ignori

cos’è la gioia, perché vuoi con rabbia

ciò che non hai, e ciò che è tuo lo perdi.”[1]

 
Ma il buon Claudio,  cui la vecchiaia ancora non ha strappato i giovani petali, s’aggrappa alla vita con rabbia e ostinazione, come farebbe qualsiasi giovane che appena intravede le gioie che la scoperta del mondo offre; questo nonostante pronunci davanti al Duca parole di rinuncia, parole ammantate di maturità ma profonde come il terrore causato dal pensiero di abbandonare l’anima al giudizio di Dio. Anche una speranza, pur aleatoria e contaminata, irrimediabilmente contaminata, è pur sempre speranza, agli occhi di Claudio. Siamo ancora al primo stadio della disperazione: i sensi all’erta ancorano il giovane alla realtà, in uno stato di fiduciosa attesa. “Deve pur arrivare qualcuno a salvarmi, un peccato sì veniale non può portare al patibolo”: questo pensa certamente Claudio. Una colpa tanto piccola, una punizione tanto greve. C’è un solo nome, per questo: ingiustizia.

 
“C’è un’altra medicina? Ai disgraziati

non resta che sperare. Mi preparo

a morire. Ma spero di campare.”

 
Ecco, la parola magica: disgraziato (miserable nell’originale). Claudio si sente vittima della malasorte. Nel profondo del suo animo, in quella paurosa oscurità ove si sta per stabilire la morte, egli non si sente colpevole. O almeno, non fino al punto da meritare il capestro. Il discorso del Duca batterà proprio su questo tasto: la vita è vita soltanto per uno spirito limpido, che si dedica ad attività che lo elevino al Cielo. Questo attaccamento mostrato dal giovane appare, sotto la luce di questo discorso, quasi lascivo, vergognoso. Il ciclo dell’uomo è così breve, che sprecarlo in attività deprecabili è veramente da stolti. Wasted, è il termine che rende perfettamente la sterilità di questo ciclo. Un suono duro, che non ammette repliche. Dopo aver sprecato, non si può fare ammenda: il tempo trascorso non si può riavere. E così quei granelli di sabbia, a cui il giovane aveva affidato la propria vita, rappresentano ora la sua resa. Non resta che abbracciare la morte.

 
“… la tua schiena s’incurva come un asino

sotto il peso dell’oro, ma alla fine

è la morte che scarica i lingotti.”

 
Parole a cui è impossibile replicare. Ma la pietra tombale, posata su ogni possibile afflato vitale di Claudio, arriva dalle ultime parole che il Duca scolpisce sul caldo marmo delle lacrime del giovane:

 
“Tu non hai giovinezza né vecchiaia

ma solo quella lunga sonnolenza

del dopopranzo in cui le sogni entrambe,

perché la tua famosa giovinezza

si fa strada se chiede un po’ d’appoggio

alla tremante età dei paralitici;

e chi è ricco e decrepito, chi è vecchio,

non ha più desideri, non ha braccia

per godersi il denaro che può spendere.”

 
A Claudio, ormai naufrago nel mare in tempesta di un destino indubitabile e non procrastinabile, non resta che pronunciare il proprio devastante epitaffio: “Così sia”. In un angolo buio di quella gagliarda speranza che coltivava prima dell’incontro col Duca, annodato con i sottili fili della colpa, lo attende il capestro.

 

Mattia Orizio




[1] Tutte le citazioni dell’articolo sono tratte dal volume “Misura per misura”, Einaudi, 1992, traduzione di Cesare Garboli.

lunedì 8 febbraio 2016

THE REVENANT: UN CANTICO DELLA NATURA


A dispetto dell’ambientazione, The Revenant non è un film western. Non è nemmeno un film drammatico, una storia di passioni solo umane, sebbene prenda a prestito dal romanzo di Michael Punke la vicenda della vendetta del trapper Hugh Glass. The Revenant è una meditazione poetica sulla natura: i movimenti di camera, il montaggio, il tappeto sonoro, tutto concorre a immergere lo spettatore in un’atmosfera di bellezza primordiale.

Questa bellezza è uno scandalo per il sentimentalismo odierno, poiché è inseparabile dalla dura realtà della sopravvivenza e della lotta per la vita. Il film rivela un mondo dove a prima vista non c’è differenza tra uomo e animale: il protagonista è attaccato a suo figlio come lo è ai suoi cuccioli l’orsa che lo aggredisce. Vestito della pelle dell’animale, Glass darà la caccia alla sua preda, Fitzgerald, l’assassino del figlio. Questo mondo elementare è il mondo che l’essere umano abita da sempre, in verità, dalla preistoria in avanti: il mondo in cui “siamo tutti dei selvaggi” (così scrivono i francesi sul corpo del Pawnee ucciso, descrivendo involontariamente sé stessi). Qui sembra vincere la concezione estrema di Fitzgerald, che in nome del tornaconto personale mente, tradisce, uccide. Non a caso il suo mito fondatore è il racconto di come suo padre trovò dio in uno scoiattolo… e lo mangiò!

Tuttavia Fitzgerald, nella sua meschinità, ignora proprio ciò che il film mostra di continuo: la natura è materia e insieme meraviglia, è il miracolo perpetuo di una durezza che trascolora in purezza. Miracolo di cui l’uomo è custode, poiché solo l’uomo tra i viventi può vederlo. Glass arriva a vedere, e difatti il suo viaggio di corpo agonizzante diventa un percorso di purificazione dello spirito. Colui che sembrava retrocesso a un irrequieto cavernicolo alle prese con la pietra focaia, incomincia ad ammirare la natura, e allora il suo volto si trasfigura nelle fattezze di un profeta biblico.

“Non ho più paura di morire, sono già morto”, dice il protagonista a un certo punto. La frase significa più di quanto sembri: Glass ha subito qualcosa di simile a un’iniziazione, un’esperienza di morte personale e rinascita a un altro livello. Tanto più che alla contemplazione della natura ha fatto seguito la visione onirica del mondo dei morti. (Non ha forse sognato di incontrare il figlio tra le sublimi rovine di una chiesa?) Glass ha visto la realtà ammaliante e misteriosa dell’universo, e adesso prova una sorta di indifferenza verso la propria vita. Sarà proprio questo distacco estremo a dargli le ultime forze per portare a termine la sua vendetta.

Poi, però, tutte le circostanze convergono in un punto, tutte le avventure del caso rivelano un disegno. Una spirale, forse, come l’incisione sulla borraccia capitata davanti a Fitzgerald, segno che il suo nemico vive e lo sta cercando. Nel momento finale, Glass ha l’illuminazione definitiva, già suggerita dalle parole del Pawnee solitario “la vendetta è nelle mani di Dio”: la natura segue il suo corso, ogni cosa è parte di un ordine superiore. Glass lascia andare Fitzgerald alle correnti del fiume, verso i temuti Arikara, che così possono concludere lo scalpo iniziato anni addietro; la tribù risparmia invece Glass, poiché ha salvato la loro principessa (senza sapere chi fosse). Tutto torna, tutto è compiuto: nelle mani di Dio si riuniscono vendetta e misericordia. Al protagonista non resta che ricongiungersi alla divinità: il suo ultimo respiro apre i titoli di coda, che finiscono in una folata di vento. Un unico soffio divino attraversa la natura.

 

Massimiliano Peroni

 

 

sabato 17 ottobre 2015

UNA LEGGENDA CULINARIA







Il grande portone giubilare dell'alimentazione è prossimo a chiudere i battenti; ognuno resterà con le proprie impressioni, le personali critiche, gli accessi di entusiasmo. Forse, avremo nuovi dubbi: cambieremo i pranzi e le cene? Certo, continueremo a nutrirci. 
Nella caleidoscopica Italia del cibo avremo di che soddisfarci, oppure, più semplicemente, riscoprire costumi antichi, e antiche tradizioni di cucine fatte dei più misteriosi ma avvincenti miscugli: da qui sono passati tutti, o quasi.
A Teramo e provincia (in Abruzzo) al Primo di maggio si celebra il rigoglio primaverile con un piatto assai speciale, e particolare: le Virtù. Un'antica leggenda, ricostruita solo di recente sulla base di fogli sparsi, manoscritti e anonimi, narra l'origine di questo piatto unico. Ed ecco il racconto.

 

LE VIRTÙ 

 
A mia madre, maestra di Virtù
 
Tanti e tanti secoli fa, in un tempo così lontano che nessuno più ricorda, gli Dei si riunirono in solenne assemblea per eleggere - democraticamente - il re dei re, il Dio supremo, il governatore di tutte le terre, dei pianeti, delle acque e degli altri elementi. Non solo, il capo indiscusso avrebbe governato i destini degli uomini tutti: nascituri compresi. Il posto, come è comprensibile, ingolosiva i presenti, indistintamente. La discussione, all’inizio pacata, si era poi, chissà perché, incanalata verso un’accesa diatriba fino a risolversi in veri e propri insulti e improperi di ogni genere. Volarono parole grosse: grasso, senza senno, vagabondo;  addirittura qualcuno giura di aver udito con le proprie orecchie un Dio inveire contro un suo pari definendolo: ateo. E non era bastato! dalle parole si era passati alle vie di fatto: sonori ceffoni, strette alle orecchie, calci un po’ dappertutto. Il tenebroso spettacolo del Supremo Collegio agli occhi del mondo intero presagiva sciagure orripilanti, e la pace da tanti auspicata pareva veleggiare verso altre galassie, che, a dire di qualcuno (pare fosse un tale conosciuto per Santelmo), erano gestite da altre divinità, meno animose, meno sanguigne. Restando l’imitazione a specchio il peggior male della nostra progenie, analoghi tafferugli umani scoppiarono qui e lì, a macchia di leopardo, segno che la situazione sfuggiva di mano, e pesantemente. Saputa la qual cosa ecco che si alza il Dio della Curiosità con una brillante idea; dice: ognuno di noi prepari una pietanza che abbia come ingredienti le virtù del mondo, chi avrà preparato la pietanza più buona quello sarà il nostro re. Si mormora, qualcuno contesta. Il Dio delle Consuetudini obietta: perché mai un cuoco dovrebbe essere il nostro re? il Dio che tutti ci governa deve possedere la saggezza non l’arte di spadellare. L’altro con un sorriso compiaciuto di chi sa la risposta, gli fa: amicone mio, non è facile impresa rintracciare il maggior numero di virtù sparse dove nemmeno noi abbiamo contezza, tu forse dimentichi che per rendere più difficile la vita agli uomini le abbiamo nascoste sì tanto bene da non ricordarne i posti, ed ecco perciò che chi preparerà il piatto più buono vuol dire che quello avrà rintracciato più virtù, e tu m’insegni, aggiunse puntando il dito affusolato, che le virtù si rammostrano a chi le merita: quegli è il più virtuoso: quegli merita il sacro scranno. Tutti tacquero per poi applaudire, la proposta fu approvata: unanimità e una sola astensione.
Eppure la pace non tornò. La caccia alle virtù fu terribile e sanguinaria. Per mesi la terra messa sottosopra, sconquassata, invasa da Dei invasati alla ricerca di ciò che loro stessi avevano saggiamente nascosto. Poveretti! s’erano illusi - a quel tempo - di veder crescere le loro creature spontaneamente, tese alla virtù della vita senza le virtù! Aggiungeteci poi che questi Dei, singolari invero, erano convinti di aver occultato le virtù nei luoghi più inaccessibili, i più sperduti della terra, da cui un generale rovistamento di foreste sottoboschi grotte e fondali marini. All’uopo s’erano conclusi accordi bi e tri laterali dove ognuno c’avrebbe guadagnato qualcosa in caso di vittoria. I più maldestri andarono a cercare persino nelle viscere o nelle teste degli animali che, sventrati, spirarono senza nemmeno una parola d’addio, o di compassione. E fu un vero miracolo che fulmini e saette non si abbatterono sugli stessi uomini che in questa occasione non avrebbero nemmeno saputo a che santo votarsi, perdendo all’ultimo il conforto della religione.
Dopo la caccia iniziarono le prove culinarie.
Pentoloni giganti presero a bollire, incredibili miscugli di sgradevoli olezzi e fumi nauseabondi s’ersero tutt’intorno alla terra come una nube, tanto fitta da oscurare la lucentezza del sole. Qualcuno azzardò che si era alla fine del mondo ad opera della stessa mano che l’aveva creato: pianti a dirotto si levarono, supplicando, se doveva esserci, una morte rapida e indolore.
Il giorno statuito per la gara l’umanità tirò un grosso sospiro di sollievo, un unico sbruffo potente che alleggerì appena la malsana cappa; presto avrebbero avuto il nuovo Dio supremo, di tutti padrone. S’apprestò nel salone delle feste il gran tavolo circolare, e arrivarono, scortate, zuppiere colme di bontà fumose, piatti di carne sanguinolenta conditi con santa pazienza, spiedi infilati in galline ripiene di elevata saggezza, brocche di vino distillato da rossa forza, e così via; ciascun Dio indicava l’ingrediente usato che a suo avviso tanto era buono da racchiudere in sé tutte le ricercate virtù, gli altri assaggiavano e giudicavano. Bevvero e mangiarono a sazietà per sette giorni e sette notti, ma, ahimè! la fumata fu nerissima. Ognuno rivendicava la vittoria e riprese l’indecente parapiglia, e tanto bastò a mettere all’erta che nessuna virtù era stata riconquistata, e le speranze dell’umanità languivano per la paura del seguito.
D’un tratto si sente bussare al grande portone dorato e qualcuno annunciò: ecce homo. Pensate come rimasero di stucco quegli onnipotenti! Come osa interrompere il sacro conclave, urlarono in coro, mandatelo via a calci nel culo. Sentiamo cosa vuole, no?, intervenne il Dio delle Relazioni Umane, caso mai ha in serbo utili consigli; buuuuu fecero gli altri; non ci costa niente, aggiunse il Dio del Tempo Perso (e questo era vero), fatelo entrare. E così fu.
Si presentarono un bifolco puzzolente di letame e rosso in viso dal tanto bere e la sua amatissima signora, capelli legati e grembiule ancora unto di cucina fresca; in due portavano un gran contenitore ancora fumante pieno fino all’orlo, e dopo un sudato issa lo sistemarono al centro del tavolo del conclave.
E questo cos’è?, chiesero gli Dei, rosi tra il fastidio e la curiosità morbosa.
Un po’ di pietanza, fece il cafone, sappiamo che siete tanto impegnati con le cose vostre sante e benedette, abbiamo pensato che ...;
E questa sbobba?, fece il Dio della Maleducazione.
Nel frattempo solerti valletti alati di già servivano piatti strapieni di quell’odoroso miscuglio.
Gli zotici si guardarono come a consultarsi, poi lei, la femmina di casa, arrossendo disse: non saprei dirle, l’ho inventato io, ci metto dentro tante di quelle cose, ci metto - e abbassò la voce - i rimasugli dell’inverno insieme alle cose nuove che nascono ora che siamo ai primi di maggio, lo sapete voi signori come va, dipende dalle stagioni, ci stanno quelle buone e quelle cattive, questa è stata buona grazieadio.
Dacci la ricetta, donna, tuonò il DIO della Prepotenza, mica possiamo mangiare senza sapere che c’hai messo.
Allora - rispose pronta la donna - ci ho messo: 
2 litri di olio o poco più
3 chili di legumi secchi (fagioli tondi, fagioli cannellini, fagioloni, ceci, lenticchie) da mettere a bagno 20 ore prima, i ceci 24 ore, le lenticchie direttamente nell’acqua bollente
3 chili di piselli
3 chili di fave
7 carciofi fritti
3 mazzetti di annita
2 chili di spinaci
2 chili di bietole
2 uova di pasta verde
2 uova di pasta normale
1 uovo di pasta rossa
½ uovo di pasta mista
2 etti di penne
2 etti di conchiglie
3 etti di orecchiette
1 chilo e ½ di polpette
1 osso di prosciutto da mettere a bagno 2 giorni prima
5 mazzetti di misericordia
e poi ancora (senza numerario - n.d.n.)
peperella, borraccia, battuto di carota sedano aglio cipolla, alloro nei legumi, limoni per pulire i carciofi, maggiorana prezzemolo. 
Tirò il fiato la brava donna, che l’emozione le aveva giocato un brutto scherzo e aveva parlato tutto d’un botto, paonazza in volto, le mani sudate e strette. Che brutta cosa la superiorità!
Gli Dei, buttati a capofitto nei piatti, ammutoliti, scucchiaiavano con poca eleganza presi da un ignoto ardore mangereccio; guardinghi verso i vicini commensali sempre pronti ad arraffare l’altrui, s’affrettavano per avere il bis.
La coppia si teneva per le mani, avvinte dalla paura: un solo errore sarebbe costata loro la faticosa vita, ma il silenzio faceva ben sperare. Stettero all’erta godendosi attimo dopo attimo l’unico suono che li rappacificava: quello dei cucchiai. Poi uno alla volta gli Dei parlarono: sputarono stupore e meraviglia: è vero ci sono i ceci, e anche i fagioli, e l’erbetta, e gli spinaci, e così via elencando. Li ignoravano bellamente ingurgitando mestoli su mestoli: insaziabili. Finirono i piatti tutti insieme sul filo dell’arrivo e tutti di nuovo serviti per la doppia razione e dire che ne avanzava forse per una terza, tanto era grande il recipiente.
Che volete che vi dica quello era il piatto che avevano così tanto ricercato, lo si capiva dal gusto e dai commenti, dalla soddisfazione che distendeva le fronti spesso corrucciate, e poi erano diventati più buoni tra di loro, si dicevano grazie e prego, si passavano l’acqua, l’oliera e così via, dimentichi delle pregresse liti furibonde cui s’erano lasciati andare negli ultimi mesi: sconciamente. Il linguaggio era migliorato di parecchio, forbito con giusti accenti e senza sbavature, insomma tutta un’altra storia. Quando all’improvviso, come colto da un’illuminazione, s’alzò il Dio dell’Osservazione, in genere silenzioso, e urlò: queste sono le Virtù! Tacquero posate ganasce e mormorii: la cosa era seria, e potete rendervene conto da voi stessi. Gli Dei in scacco da due contadini. Alcuni storsero il muso sporco, altri prima di farlo se lo pulirono, ma il Dio dell’Osservazione continuò imperterrito a onta delle conseguenze, e forte del suo nuovo incarico di Dio della Giustizia delle Cose, osservò: la bontà di questo piatto e tutto quello che ne è seguito ci dimostra che in esso sono raccolte tutte le virtù, perché le virtù non sono una cosa sola ma un insieme di cose ben congegnate e la prevalenza di una sola di esse guasta sapore e contenuto, e poi sono tutti ingredienti che si trovano facilmente, alla luce del sole, quindi io dico che l’uomo ha saputo trovare le virtù che noi abbiamo loro consegnato ai tempi dei tempi e ne hanno fatto buon uso.
Ma noi non vogliamo comandarvi! fecero i due poveretti letteralmente terrorizzati e persi in una condizione di grandiosa umanità.
Gli Dei avviarono febbrili consultazioni e all’unisono convennero che la condizione umana era inconciliabile con la potenza divina: i villici potevano dormire sonni tranquilli.
Un regalo in ogni caso vi spetta, fece il portavoce di tutti, il Dio Tesoriere.
Cosa?, chiese la villica alquanto interessata.
Ci sono, urlò il Dio delle Celebrazioni: a garantirvi un giorno dedicato alle virtù in questo stesso giorno, ogni anno, avrete un’esplosione di verdure, fiori e frutta perché possiate rinnovare per sempre la vostra saggezza.
Quel giorno era il primo di maggio.
La coppia s’inchinò umile di fronte a tanta benevolenza e guadagnò la porta, ma lei, la padrona di casa, la contadina, rimbrottò al marito: dovevi chiedere tu, farti sentire, che regalo è per me? fatica solo fatica pure il primo di maggio che è festa!
Ed è così che ogni anno nei giorni che precedono il primo di maggio rigoglisce la natura offrendo tutti gli ingredienti necessari per le Virtù a rinnovare la riconoscenza degli Dei verso l’innata saggezza degli uomini.
Il giorno successivo gli Dei, ancora pieni di quelle virtù, in un batter d’occhio elessero il Dio supremo che regnò non so quanti secoli, e a quanti mi chiedono, a conclusione di questa storia, perché gli uomini non sono sempre virtuosi e saggi, agevolmente rispondo: perché vogliono assomigliare troppo agli Dei.
 
Michele Mocciola

mercoledì 9 settembre 2015

INTERMEZZO POETICO





I lunghi pranzi, quale è Expo 2015, richiedono momenti di sosta per tacitare viscere e mandibole; per calmierare gli spazi cavernosi del ventre in modo da averne di nuovi per la ripresa. Molti sono i modi per impegnare questo tempo, e in genere si escogitano i divertimenti più svariati per rallegrare i convitati: aedi, giocolieri, danzatrici del ventre, nani impertinenti, mostruosità in gabbia, buffoni.
Noi abbiamo scelto la lettura di alcune poesie: basta cliccare sui link.

Cucinata di poesie letta da Michele Mocciola - redazione I Sorci Verdi

Giorgio Baffo letta da Giacomo Cattalini - redazione I Sorci Verdi


La prima - Cucinata di poesie - sfrutta il momento culinario italiano amplificato da Expo 2015 per richiamarci alla memoria grandi poeti e scrittori della storia della letteratura, ed è un invito ad approfondirne l'opera mentre mangiamo. In fondo, si tratta pur sempre di cibo per un corpo, quello umano, dalle molteplici esigenze.

Gli altri due componimenti sono di Giorgio Baffo, poeta licenzioso del '700, poco letto, eppure autore di spiccata arguzia e vividezza poetica; il tono spregiudicato delle poesie nulla toglie al ritmo serrato ed alla profondità del pensiero, anzi rivendica la libertà estrema di ogni vero poeta.

 

Cucinata di poesie è di Maria Chiara Forcella, psicologa e psicoterapeuta di Padova, autrice di Claut e Brunduis (Chiodi e Susine), Edizione Universitaria, Venezia; di “Nuovi Orizzonti” con Maison d’art, Padova; di Cidules (Rotelle infuocate) con l’antica legatoria libri Cesarò, Padova. Legge  poesie presso la Maison d’Art in occasione di mostre di pittura ricercando ed approfondendo  un percorso di legame  psicologico e psicanalitico tra arte pittura e poesia.